5 feb 2010

Intervista a Marco Campogiani, regista de "La cosa giusta"

http://cinefestival.blogosfere.it/2009/12/intervista-amara-a-marco-campogiani-regista-de-la-cosa-giusta.html


di Carlo Griseri

Ne abbiamo parlato durante il Torino Film Festival: La cosa giusta, film d'esordio di Marco Campogiani, è stato presentato tra gli applausi nella rassegna torinese (nel capoluogo 'sabaudo' è stato girato quasi interamente) alla presenza del regista e del cast, guidato da Ennio Fantastichini, Paolo Briguglia e Ahmed Hafiene.

Una fugace apparizione sugli schermi a fine novembre (i particolari qui sotto...) e nulla più: il film è una piacevole commedia, ottimamente recitata, con la capacità di far riflettere. Non un film perfetto, naturalmente (ma quanti ne escono in sala?), ma sicuramente un buon prodotto che si discosta anche dal 'solito' cinema italiano...

Per saperne di più, e per capire perché la vita in sala del film è durata così poco, abbiamo intervistato Marco Campogiani.

Iniziamo dalle note dolenti, la distribuzione, gestita in pochissime sale e per poco tempo: come si spiega questa scelta controproducente?

Non lo so. Non capisco. Se il film viene fatto uscire realmente in tre sale, il film sostanzialmente non viene fatto uscire, mi pare abbastanza chiaro ed evidente.
E che sale! A Roma ci accoglie l'Alhambra. Vivo a Roma, e confesso di andare spesso al cinema, ma ignoravo l'esistenza dell'Alhambra. E molti altri, molti cinefili, comunque tutti quelli a cui l'ho chiesto, ne ignorano ugualmente l'esistenza. Ora la conosco: all'ingresso troneggia una enorme scritta: “BAR CHIUSO”. E' una sala che va forse bene per la diffusione capillare sul territorio della duecentesima copia di un film conosciuto, ma – con tutta evidenza - del tutto INADATTA per il nostro film. Una sala – molto periferica, con un pubblico esclusivamente di quartiere - a partire dalla quale non vi è nessuna possibilità che si generi un qualche passaparola, in una grande città come Roma.
A Milano siamo usciti al Palestrina. A Torino eravamo al cinema Massimo, un'ottima multisala: peccato solo che, contemporaneamente, nelle altre due sale ci fosse una bellissima manifestazione, Sottodiciotto, con anteprime internazionali e incontri con grandi registi, tipo Mike Leigh. Gratuitamente!
Cosa significa questo? Significa far uscire un film in modo PESSIMO, mi pare chiaro. Non ho mai pensato che il film sarebbe uscito in un grande numero di copie, chiaro. Ma non avrei mai immaginato queste tre sale.
Pensavo che saremmo usciti in “buone sale”, nelle principali città italiane, magari a Roma e Milano in più di una sala, per dare la possibilità al film di vivere di passaparola. Speravo che ci fosse una strategia, un pensiero, dietro l'uscita.
Il film nel primo weekend incassa 2.900 euro. Rimane in queste sale qualche altro giorno, poi viene smontato. Qual è la strategia di questa uscita? Come è possibile provare a giocare la (difficile) partita con il pubblico italiano, in queste condizioni? Occorrerebbe chiederlo a Cinecittà Luce, “la società pubblica che opera come braccio operativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la cui missione è il sostegno alla cinematografia italiana” - così si legge nel sito ufficiale.
Tutto questo sarebbe forse comprensibile se il film fosse brutto, o meglio orrendo (e capita di vederne, anche ben distribuiti), ma ho ragione di credere, ascoltando quello che mi dicono gli spettatori, che il film non sia brutto.
Spero che sia ancora possibile fare qualcosa per questo film. Non mi capacito. Sono incredulo. So di non essere un caso isolato, un'eccezione negativa. Altri film non ce l'hanno neppure, una distribuzione. Però, semplicemente, non è una cosa giusta.

Il film al Torino Film Festival ha ottenuto ottimi riscontri, con le lodi anche del direttore Amelio: quali sono state le emozioni di quei giorni? Quale il suo ricordo dell'esperienza?

Il ricordo è quello del pubblico, della sala, delle proiezioni. Era il momento della verità, per me. Cosa ho fatto, davvero? Il film piace? Il film comunica? Che ne pensa il pubblico? Andiamo in sala e vediamo. Non avevo tanto paura, un po' di tensione, ma più che altro curiosità. La risposta mi è sembrata molto positiva. Il ricordo più netto è: “sentire il pubblico che ride”, vedere una persona che non conosco, tra il pubblico, piegarsi in due per le risate, per una cosa che abbiamo scritto io e Giovanni de Feo. E' stato davvero bello.
(Un film che adoro è “I dimenticati”, di Preston Sturges: verso la fine c'è questa scena, bellissima, dei carcerati (tra cui il protagonista, un regista che vuol fare film di contenuto e tema “sociale”, “impegnato”, per le tante persone povere) che vedono un film, dei cartoni animati Disney, in una chiesa-cinema, e ridono a crepapelle, e anche il protagonista-regista ride con loro, contagiato).
Il ricordo di Torino però si mescola all'incredulità per quello che è successo dopo. E' questo che non capisco: il film, in realtà, la partita col pubblico l'ha affrontata. E in una sala, con il pubblico, "si sente la sala", si sente come reagisce il pubblico, se si annoia, se dorme, se ride, se sbuffa. A me, e a molti altri, la proiezione a Torino ha dato l'impressione - NETTA - che il film piaccia. Bene. E la cosa si è ripetuta nelle altre proiezioni, a Torino. Molto bene. Non spetta a me giudicare se il film è bello (per me è bello, ovvio). Però mi pare che la storia comunichi, che “arrivi” al pubblico; ed è anche per questo motivo che si fanno i film, no? Non solo per esprimere la propria ineguagliabile autorialità. E' il mio primo film e, mi pare, comunica con larghissima parte del pubblico. C'è da esserne contenti. Sono abbastanza soddisfatto. Bene. Però poi al film non viene data, come ho detto, la possibilità di essere ulteriormente visto. Perché?

Note di merito sono state fatte anche alla scelta di casting: come ha scelto i suoi attori? Come giudica il loro lavoro in questo film?



Il casting è stato curato da Elisabetta Giacomelli. Insieme a lei, grazie al suo aiuto, abbiamo cercato attori e attrici. Abbiamo avuto degli incontri. Sono molto contento di aver lavorato con Camilla Filippi e Samya Abbary, i due ruoli femminili. E i tre interpreti maschili sono, a mio parere, quanto di meglio potevo sperare. Temevo che Ennio - con la sua grande esperienza, con la sua storia attoriale - potesse crearmi dei problemi – io sono alla prima regia, inesperto – ma anche lui, come tutti, si è confermato un grande professionista. Gli attori sono stati davvero pazienti, amichevoli, simpatici. C'era davvero un buon clima, con loro, nel gelo di Torino.

Temi importanti trattati anche con un po' di leggerezza, per far pensare e far sorridere: come nasce l'idea del film?

L'idea del film nasce da un'immagine. Il pedinato che “mette la freccia”, con il braccio (come si fa in bicicletta) indicando a chi lo segue che sta per svoltare a destra. Un gesto ironico, quasi di irrisione, a indicare un rapporto inusuale, strano, tra chi segue e chi è seguito. Questa immagine è entrata poi nel film. 
E' da questa immagine che ho sviluppato il tono della storia: c'è un qualcosa di paradossale, di ironico, anche di “buffo”, nella vicenda. Almeno: con quest'occhio la volevo guardare, questo to lo sapevo dall'inizio. E' il tono che mi piaceva, è il tono che ritenevo anche efficace, per comunicare con il pubblico.
Ma la storia, in sé, è piuttosto dura. La vicenda narrata si ispira largamente a precisi fatti di cronaca, a una vicenda reale: 24 gennaio 2005.
Mohammed Daki, marocchino, rinchiuso da 22 mesi in carcere, con l'accusa di complicità nel terrorismo internazionale, viene rilasciato, con sentenza del GUP Clementina Forleo. Una sentenza discussa, forse discutibile, che genera polemiche, proteste dal mondo della politica. Fatto sta che quest'uomo è libero, ma lo si mantiene sorvegliato. Gli viene affiancata una scorta.
Vive a Reggio Emilia, e per diversi mesi vive sotto scorta, fino al processo che dovrà stabilire se è colpevole o innocente. Quest'uomo – un presunto terrorista - vive insieme alla sua scorta. 28 novembre 2005. Arriva la sentenza. Daki viene assolto. Alla fine della lettura della sentenza urla: “Viva l'Italia. Allah è grande. ”. E poi dice: "Sono contento. Grazie alla giustizia italiana... grazie a questi giudici che mi hanno riconosciuto innocente. Ho sempre pensato bene perché non sono un terrorista. Ora festeggerò con il mio avvocato e altra gente. Rimarrò in Italia. Voglio continuare a studiare e trovare un lavoro".
Inoltre Daki denuncia degli interrogatori irregolari. 10 dicembre 2005. Mohammed Daki viene espulso dall'Italia, “per motivi di sicurezza e ordine pubblico”, con decreto firmato dal Ministro dell'Interno. Viene imbarcato su un aereo a Malpensa. La parte conclusiva del film, gli ultimi 25/30 minuti, è invece di “pura finzione”, ma verosimile, in quanto “capita di frequente che persone espulse e rimpatriate con la motivazione di essere considerate pericolose per lo stato subiscano poi ulteriori controlli da parte delle autorità locali”.

Inevitabile chiederle del rapporto con Torino, che lei ha dichiarato conoscere poco ma che è così ben rappresentata nel film (tra l'altro l'omaggio è proseguito con i cameo di due 'torinesi' d'adozione come Vattimo e Tawfik).

E' stato molto bello girare a Torino, e in quelle condizioni atmosferiche. E' una città ospitale, per chi fa film. Avevo un po' paura della Torino “monumentale”, della Torino “bella”, storica. Avevo paura di fare delle cartoline di Torino. Così, anche per le esigenze della storia, siamo andati a cercare dei luoghi meno battuti (a parte l'esterno del carcere, lo confesso, che ho visto altre volte, anche in tv, ma non è che sia facile trovare un altro “esterno carcere” a Torino), meno battuti non solo dalla cinematografia, ma proprio meno frequentati dalle persone. Mi piaceva che fosse Khalid a condurre i due poliziotti in luoghi nei quali non sarebbero mai capitati, altrimenti

Progetti per il 2010? Nuovi film in programma?

Scrivo sceneggiature, ho altre idee. Vorrei capire bene, però, se è sensato cercare di fare film, in Italia. Lavorare ad un film, e poi vedere che questo film praticamente non viene distribuito, non gli viene consentito di entrare in contatto con un pubblico, non solo mi amareggia, ma mi fa riflettere.

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