11 feb 2010

Recensione del film / Recencinema

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Il film di Campogiani non va sottovalutato, la sua struttura regge in qualità di un plot narrativo improntato su caratteristiche basilari quali linearità, solido intreccio e sviluppo suggestivo di indubbio coinvolgimento emotivo, tutti aspetti inscritti in un contesto registico disciplinato e accademicamente ben interpretato.
L’incipit della storia è un classico caso di “actio in medias res”, dove la vicenda parte già avviata per poi trovare i doverosi chiarimenti in un lungo flashback intriso di mistero e nostalgia. La cura delle scene è evidentemente il principio del lavoro di Campogiani, il quale trova nello studio della singola inquadratura un aspetto fondamentale per pervenire ad un tutto coeso, unitario e sufficientemente esaustivo. A tal proposito le prime inquadrature recano in sé un forte barocchismo cromatico dal notevole risalto, dovuto ai colori vivi del paesaggio urbano tunisino. Il protagonista Eugenio si immerge con disinvoltura in un backround culturale tipicamente nord africano, dove l’importanza del parlato (in questo caso gli idiomi francese e arabo) si rivela a dir poco indispensabile ai fini di un’integrazione seppur occasionale. Proprio il realismo linguistico si dimostra una delle chiavi di volta presenti nel film al fine di comprenderne lo spirito e i vari significanti concettuali. La panoramica descrittiva, che normalmente aderisce ad un discorso di tecnica registica puramente visiva, qui ha la funzione di raccordo che dà di fatto il via alla digressione narrativa contestualizzante. Campogiani adotta uno stile impregnato di momenti di riflessione e attimi meditati, ragion per cui i movimenti di macchina risultano lenti, controllati e in un certo qual modo idealmente riposanti. Per approdare ad un discorso cinematografico completo e ammirevole occorre toccare tappe già percorse ma sicure, il regista quindi utilizza il gioco dei campi e controcampi per mettere in scena dialoghi medio lunghi e non annoiare lo spettatore con rischiose fissità. Dall’incontro fra Eugenio e Duccio inizia quello che si manifesterà come un sottile conflitto inscritto in una logica di coppia, dove si origina un attrito palese fra contesto pubblico e privato: il dovere dell’incarico affidato a Eugenio si scontra con la mite favola sentimentale che intercorre fra il ragazzo e la compagna Serena. Con riconosciuto acume, Campogiani prima descrive una sequenza dai toni caldi e intimi, poi catapulta lo spettatore in un inverno che riflette la dura sussistenza del reale. Il regista dimostra di avere molte idee da sviluppare attraverso un effetto cornice nel quale entrano dialoghi ampiamente rilevanti che coinvolgono i due poliziotti in relazione a diversi argomenti, uno dei quali la volontà di Eugenio di studiare e laurearsi. La linea del tempo è rispettata senza distorsioni tramite dissolvenze incrociate che danno l’idea dell’attesa e di una chiara percezione. Segue una profonda immersione nella realtà cittadina di Torino (dove la storia è di fatto ambientata e filmicamente girata), nel cui insieme urbano ha luogo il pedinamento di Khalid: Eugenio e Duccio lo inseguono fra i mercati di Porta Palazzo, in Piazza Castello, in Piazza San Carlo, per concludersi dove dimora il sospettato tunisino, nel quartiere delle Vallette. Dalla vicenda, che assume risvolti sempre contenuti ma curiosi, si evince l’importanza del rapporto umano che coinvolge il trio di personaggi, in un clima di dolcezza e rabbia, di sospetti e dubbi, di genuinità e sincerità sospesi sul filo della subdola natura spesso volubile dell’individuo. Kahlid sembra dar la sensazione di strumentalizzare parole forti, originando una diatriba a proposito della differenza fra i concetti di “guerriero” e “terrorista”. Campogiani alza il sipario sul reale argomento trattato, cioè il problematico e complesso contatto fra culture diverse poiché bisognose di diverse interpretazioni. La lotta tra opprimenti pregiudizi e tentativi di libera sincerità scatena profondi stati di imbarazzo e disagio sfocianti, ad esempio, nel frammentato silenzio durante il pranzo in casa di Khalid, dove appare troppo labile il confine che separa la battuta scherzosa dall’offesa. Che poi si parli di dilemmi accusatori o lievi frecciate alla condotta statunitense nella lotta al terrorismo (da ascoltare il discorso relativo a Guantanamo), ciò che emerge è un gioco di sostanziali addii senza un vero e proprio epilogo. Campogiani si fa apprezzare per la sua ottica complessiva, una prospettiva d’ampio respiro nella quale il finale è soltanto subdorato, ma rimane incerto per il semplice fatto che non è necessario per lo spettatore proseguire l’indagine: la storia non è poliziesca, non è comica, è vigorosamente e autenticamente umana. Il significato risiede nella poetica del titolo attribuito al film, “La cosa giusta” coincide con quella scelta introspettiva che oltrepassa i luoghi comuni in virtù di una presa di posizione al di là delle considerazioni e dei giudizi nell’usuale modo di pensare, un discorso basato sulla fiducia. La componente umana diviene essenza in una storia che deve essere compresa in tutta la sua forza e in tutta la sua comunicatività espressiva. Un plauso va riservato al trio di attori Paolo Briguglia, Ennio Fantastichini e Ahmed Hafiene, capaci di infondere ai propri personaggi una connotazione marcatamente personale in aderenza al dramma descritto. Ottima la colonna sonora di Teho Teardo, più precisamente un commento musicale che fornisce il giusto ritmo e conferisce valore aggiunto alla storia, raccontata da Campogiani con sensibilità e profondo senso di riflessione.

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